エピソード

  • Ep. 73: Davide Ferrario - Un percorso non convenzionale tra cinema, letteratura e arte
    2025/05/19

    Davide Ferrario si definisce "un torinese per caso". Cresciuto a Bergamo fino al 1998, oggi è considerato uno dei registi di riferimento di Torino, città che ha raccontato attraverso i suoi film. Nel dialogo con Carlo De Marchis, Ferrario ripercorre il suo percorso professionale e personale, rivelando come casualità, amore e praticità bergamasca abbiano plasmato la sua carriera.La sua formazione inizia negli anni '70 a Bergamo, in un cineforum con 6.000 soci. "Era diventato più che altro un punto d'incontro," racconta, "c'era tutta la New Hollywood, c'era Antonioni, c'era Easy Rider, quindi andavi a vedere quei film lì poi stavi fuori tutta la sera a parlarne." Questa esperienza gli permette di avvicinarsi al cinema sia artisticamente che commercialmente, distribuendo in Italia registi come Wenders e Fassbinder.Negli anni '80, diventa agente per registi americani indipendenti come Spike Lee e Jarmusch. Una svolta arriva nel 1986, quando trascorre due mesi sul set di John Sayles in West Virginia. Osservando il processo di realizzazione, si convince di poter dirigere: "Un film brutto in più lo posso fare anch'io, peggio di quello che vedo non farò." Inizia così la sua carriera con "La fine della notte".Il rapporto con Torino inizia già negli anni '70, quando frequenta la città per ragioni sentimentali. Contrariamente all'immagine di "grigia Torino degli anni di Piombo," lui ne ricorda l'energia: "Io questa città l'amavo molto perché proprio in quel conflitto c'era tanta energia." Rammenta una Torino culturalmente vivace, con la Giunta Novelli che portava la cultura in periferia.La svolta professionale e personale arriva con "Tutti giù per terra" (1997), tratto dal romanzo di Culicchia e interpretato da Mastandrea. Durante le riprese, si innamora dell'assistente scenografa, che diventerà la sua compagna. "È stato l'amore che mi ha portato qua, l'amore che ancora mi tiene ma forse anche tanto altro adesso."Ferrario descrive Torino come "camaleonte": "È una città che ha una forte identità sua ma tu attraversi una strada e cambi completamente quartiere." Nel periodo dei Murazzi, apprezza l'atmosfera della città: "Era davvero una città provinciale in senso positivo, costruivi dei rapporti umani che poi diventavano anche rapporti di lavoro e di creatività."Il legame con la città si cementa con "Dopo mezzanotte" (2004), realizzato con fondi personali, che ottiene successo internazionale. "Se andava male eravamo tutti sotto un trailer e probabilmente adesso non sarei qui a raccontare queste storie."Un aspetto fondamentale del suo approccio è il bilico tra professionalità e dilettantismo. "Io amo molto le persone che sanno fare bene il loro lavoro prima delle chiacchiere," spiega, ma rifiuta l'idea che l'identità di una persona si riduca al mestiere: "Non vuol dire appiattire la persona solo a quello." Questa filosofia gli permette di muoversi tra diversi mezzi espressivi: cinema, letteratura, installazioni.Il suo primo romanzo, "Dissolvenza al nero", nasce nel 1994 come sfida dopo aver letto un bestseller di Crichton. Quattordici anni dopo pubblica "Sangue mio", ispirato alla sua esperienza come volontario in carcere, e nel 2023 esce "L'isola della felicità", una satira su Nauru, minuscola repubblica che rappresenta una metafora della civiltà occidentale.A quasi settant'anni, Ferrario si trova in una fase curiosa della carriera, passando con disinvoltura tra diversi mezzi espressivi. Questa versatilità riflette il suo rifiuto di etichette: "Due cose fuggo come la peste: l'autobiografismo e la psicologia." Preferisce costruire la sua fiction su basi reali, su ricerche o esperienze dirette.Riflessivo sulla mancanza di utopia nel mondo contemporaneo, si considera un figlio degli anni '70: "Noi siamo cresciuti in un paese in cui non c'era il divorzio e c'era il delitto d'onore. Non si deve dimenticare queste robe qua."

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    37 分
  • Ep. 72: Alessandra Avico - La voce grave dell'orchestra: vita da primo contrabbasso
    2025/05/13

    Alessandra Avico, primo contrabbasso dell'Orchestra del Teatro Regio di Torino, racconta il suo percorso musicale in un viaggio che parte dall'infanzia fino a raggiungere l'apice della carriera orchestrale. Nata e cresciuta a Torino, Alessandra ha scoperto presto l'amore per la musica, un sentimento che continua ad accompagnarla nella sua vita professionale.La sua storia musicale inizia con il pianoforte a 8 anni e poi durante le scuole medie, uno strumento che le piaceva molto ma che non sentiva completamente suo. "Era uno strumento davvero molto interessante che però non sentivo come mio," confessa Alessandra parlando dei suoi primi approcci alla musica. Figlia d'arte – suo padre era trombonista – ha respirato musica sin da piccola, sebbene la scelta di intraprendere questa strada sia stata completamente sua.La svolta avviene quando, su consiglio della sua insegnante di pianoforte, decide di orientarsi verso uno strumento che le avrebbe permesso di suonare in orchestra. L'incontro con il contrabbasso è stato decisivo: "Il contrabbasso che era uno strumento sicuramente più suonato dagli uomini all'epoca," ricorda Alessandra, "ma questa lezione che avevo ascoltato in conservatorio in realtà era di una donna che si stava diplomando e questa cosa mi aveva veramente fatta innamorare di questo strumento."La giovane musicista prosegue gli studi al conservatorio con il contrabbasso parallelamente alle scuole medie, trovando finalmente la sua vera identità musicale. "Il contrabbasso è diventato davvero un amore, una passione," racconta con entusiasmo, "mentre il pianoforte mi piaceva tantissimo ma non era cucito su di me come strumento."Il percorso formativo di Alessandra si è rivelato impegnativo, divisa tra il liceo e gli studi al conservatorio. "La vita del musicista che vuole intraprendere una strada mirata alla professione è sicuramente difficile," spiega, evidenziando come la scuola italiana non faciliti chi vuole diventare musicista professionista. Dopo il diploma al conservatorio, decide di perfezionarsi all'estero, a Ginevra, dove si confronta con un ambiente internazionale che le apre le porte al mondo della musica professionale.Le prime audizioni arrivano presto: Teatro alla Scala, La Fenice, il Maggio Fiorentino. "Questo sarà il mio mestiere, mi piace, è molto faticoso ma è bellissimo perché è la passione che si fonde con il lavoro," riflette Alessandra sulla sua scelta professionale. Dopo alcune esperienze all'estero, comprende che l'Italia è "il posto del suo cuore" e torna nel suo Paese.Il 2019 segna un punto di svolta nella sua carriera con la vittoria del concorso da contrabbasso di fila all'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. "Questo per me è assolutamente un sogno, un sogno che si realizza," afferma con orgoglio. "Era anche un po' il sogno di mio papà... vedere me che mi realizzavo e che a 21 anni riuscivo a vincere il concorso in Rai è stata sicuramente una cosa che l'ha fatto essere felicissimo."Dopo cinque anni in Rai, Alessandra vince il concorso al Teatro Regio dove attualmente ricopre il ruolo di primo contrabbasso, "un po' il culmine di quello che si può raggiungere a livello del musicista d'orchestra." Nel descrivere il mondo orchestrale, Alessandra lo definisce "un po' antico, un mondo gerarchico" ma sottolinea come questo non implichi valori diversi tra i musicisti, piuttosto ruoli ben definiti all'interno di un sistema complesso.L'orchestra rappresenta per lei "un mondo a sé" dove "se qualcosa non funziona da parte di chiunque cade tutta la baracca." È proprio questa dimensione collettiva che Alessandra apprezza maggiormente: "È proprio un modo di fare musica assieme. E lo trovo una cosa bellissima, riuscire a fare qualcosa di bello tutti assieme."La vita del musicista d'orchestra, e in particolare di chi suona al Teatro Regio, è caratterizzata da orari irregolari e un'attitudine "notturna"

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    24 分
  • Ep. 71: Marco Ponti - Il "mio" cielo sopra Torino
    2025/04/29

    Oggi ho il piacere di ospitare Marco Ponti, regista e scrittore che con i suoi lavori ha contribuito a ridisegnare l'immaginario di Torino. Attraverso film come "Santa Maradona", Marco ha raccontato una città che forse non esisteva ancora, ma che in qualche modo ha contribuito a creare.

    Nel nostro dialogo, Marco ci porta in un viaggio attraverso tre diverse "Torino": quella della sua infanzia, quando da Avigliana prendeva il treno per vedere i film di prima visione; quella della sua giovinezza universitaria, vissuta da pendolare che sognava la vita notturna cittadina; e infine quella reinventata attraverso il suo cinema.

    "Il libro di Coulis era 'Torino è casa mia', il mio è 'Torino non è casa mia, ma ogni tanto ci vado'," ci dice con ironia Marco, sottolineando questo suo rapporto particolare con la città, sempre vissuta un po' da outsider.

    È affascinante scoprire come negli anni '90 Torino fosse un incredibile laboratorio culturale. "Era pieno di gente che faceva cose," racconta Ponti. Teatro, musica, sperimentazioni di ogni tipo fiorivano in una città che stava abbandonando la sua immagine grigia e industriale per trasformarsi in qualcosa di nuovo.

    In questo ambiente Marco incontra persone destinate a lasciare il segno: i membri dei Subsonica, Luca Bianchini, Stefano Sardo e tanti altri artisti che hanno formato una rete creativa straordinaria. "Ognuno ha dato coraggio all'altro," ricorda, "il primo è stato Pierpaolo con i Subsonica, poi tutti insieme abbiamo cominciato a collaborare."

    Il racconto di Marco sulla nascita di "Santa Maradona" è illuminante: un film ambientato in una Torino che lui stesso non conosceva, ma desiderava. Una città reinventata con "disinvoltura sulla filologia dei luoghi," dove i personaggi svoltano un angolo e si ritrovano in un'altra parte della città. Un'opera che ha contribuito a plasmare l'identità culturale torinese.

    Ascolteremo anche del rapporto viscerale di Marco con il cinema, nato nell'infanzia grazie ai cinema di provincia gestiti da parenti, dove poteva entrare gratuitamente. Il ricordo di quando il proiezionista gli spiegò l'illusione del movimento è toccante: "Il movimento non c'è nel cinema, è un'illusione. Stiamo ingannando i tuoi occhi."

    Marco ci parla anche della sua recente esperienza con il documentario "La bella stagione", realizzato con Gianluca Vialli sulla Sampdoria dello scudetto 1990-91. Un progetto che l'ha portato a riconoscere come, pur raccontando storie diverse, i suoi temi siano rimasti coerenti: "Un gruppo di ragazzi legati da un'amicizia forte, che vivono delle avventure complicate e tentano in qualche modo di sovvertire un ordine stabilito."

    È un episodio che racconta molto non solo di Marco Ponti, ma di una generazione di artisti che ha vissuto Torino come un laboratorio di possibilità, dove l'amicizia e la collaborazione hanno permesso di realizzare sogni apparentemente impossibili.

    Marco ci offre anche uno sguardo sulle diverse forme che ha assunto la sua creatività: dal cinema al teatro, dai fumetti ai romanzi per ragazzi. "Quando capitava di andare con i ragazzini mi arrivava addosso una valanga di energia," racconta a proposito della sua esperienza come scrittore per giovani lettori.

    Questa conversazione è un viaggio attraverso le trasformazioni di una città e di un artista, un dialogo che ci porta a riflettere su come l'arte possa non solo documentare, ma anche reinventare i luoghi che abitiamo.

    Non perdete questo affascinante episodio di Torino e Cultura! Se vi è piaciuto, condividetelo con chi potrebbe essere interessato e lasciate un commento con le vostre impressioni. Iscrivetevi al canale per non perdere i prossimi appuntamenti.


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    32 分
  • Ep. 70: Ugo Nespolo - Torino, l'arte e un percorso eclettico
    2025/04/15

    Ugo Nespolo, figura di spicco nel panorama artistico italiano, ripercorre il suo rapporto con Torino e la sua evoluzione artistica in un racconto che attraversa decenni di cambiamenti culturali. Nato vicino a Biella ma torinese d'adozione, Nespolo si definisce con orgoglio "turineis".Nespolo ha vissuto la trasformazione di Torino dagli anni '50 fino ai giorni nostri, testimoniando il passaggio dalla città industriale dominata dalla FIAT alla Torino contemporanea. "Ho vissuto forse l'epoca d'oro di questa città", ricorda l'artista riferendosi al periodo tra gli anni '50 e '60, quando Torino era un fervente centro culturale. In quegli anni, l'università era un punto di riferimento intellettuale con professori del calibro di Pareyson e Venturi, mentre l'Einaudi rappresentava una "potenza culturale senza limiti" dove "tutti i più grandi nomi della cultura nazionale e internazionale transitavano".La formazione di Nespolo si è svolta tra l'Accademia delle Belle Arti e l'Università di Torino, dove ha seguito un indirizzo semiologico. Nonostante il suo amore per Torino, l'artista descrive la sua relazione con la città come "elastica", sempre in un'oscillazione tra Torino e Milano.Gli anni '60 segnarono un periodo cruciale per la scena artistica torinese, dominata dalla figura di Felice Casorati, che Nespolo ebbe la fortuna di conoscere personalmente. "Casorati era il deus ex machina ma era naturalmente il nemico da combattere per le nuove generazioni, bisognava essere anti-Casoratiani", spiega. Casorati rappresentava un'arte contemplativa, quasi mistica, in contrapposizione alle tendenze dinamiche dell'informale che si stavano affermando tra i giovani artisti come Saroni, Ruggeri e Sofiantino.Torino divenne poi un centro importante per l'arte contemporanea grazie a figure come Gianenzo Sperone, "certamente uno dei più grandi galleristi del Secondo Novecento", che portò la Pop Art americana in Italia. "Torino è diventata la prima città come baluardo della pop internazionale, la prima mostra di Lichtenstein è stata fatta a Torino, grazie a Sperone", ricorda Nespolo.L'artista critica però una certa presunzione torinese: "Torino ha sempre pensato di essere il capo dei mondi e di essere anche sempre la città in cui è nato tutto, ma non è vero questo. E poi anche quell'altra idea cretina per cui Milano avrebbe rubato tutto a Torino. Nessuno ha rubato niente, zero."Riguardo al proprio percorso artistico, Nespolo si descrive come un "irregolare", un "clandestino" che ha sempre rifiutato le etichette e le vie dritte: "Nel mondo dell'arte, più che mai, nel mondo della cultura oggi, deve avere un pregio, si deve essere curiosi". Il suo approccio eclettico abbraccia diverse discipline, rifiutando la specializzazione estrema in favore di un'idea umanistica della cultura, perché "l'arte non va esclusa dal sociale, non può togliersi dalla sociologia, dalla filosofia".Oltre alla pittura, Nespolo ha dedicato molto tempo alla scrittura e allo studio, collaborando con testate come Il Sole 24 Ore, Il Foglio e La Stampa, e pubblicando libri con Einaudi e altre case editrici. "Ai libri ho dedicato tanto perché penso che lì passi la cultura", afferma.Nespolo ha anche esplorato movimenti come il Situazionismo, la Patafisica (fondando l'Istituto Patafisico Torinese e Ticinese) e Fluxus, realizzando con Ben Vautier il primo concerto Fluxus italiano a Torino nel 1968. Questi movimenti rappresentavano per lui "evasioni da una strada che non si vedeva più, come se un'autostrada non ti fa più guardare, prendi delle strade laterali per sentirsi vivi".Riflettendo sull'arte contemporanea, Nespolo osserva che il concetto stesso di avanguardia è ormai dissolto: "Oggi proprio il concetto di avanguardia è un concetto che si è dissolto, che è scomparso, non c'è nessuno né avanti né indietro". L'arte attuale, secondo l'artista, è dominata principalmente dalle logiche di mercato, dove "si misura il valore delle opere dal prezzo".

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    36 分
  • Ep. 69: Daniela Marra - L'attrice che ama Torino, la città dei primi passi
    2025/04/01

    Daniela Marra, attrice, interprete in teatro cinema e serie tv, più recentemente nota nei panni Adriana Faranda nella serie "Esterno Notte" di Marco Bellocchio. Daniela racconta il suo profondo legame con Torino, città che ha avuto un ruolo fondamentale nella sua formazione artistica e nel suo percorso personale.Cresciuta a Reggio Calabria , scopre per caso la sua passione per il Teatro, alimentata nel corso di anni e alle volte messa a tacere. Ci racconta il viaggio tortuoso che l’ha portata a Torino dove, nel 2006 supera le selezioni per la Scuola per attori del Teatro Stabile.I tre anni di formazione in una Torino vivace si consumano tra tanto teatro, vita culturale e studio. Sul finire della scuola entra nel cast di "Fuori Classe" serie Rai con Luciana Littizzetto, un'esperienza che le permette di intraprendere un nuovo percorso professionale davanti alla macchina da presa. Parallelamente, partecipa un progetto singolare “Co.dance” che coinvolge non solo l’ambito performativo ma anche alcune attività nei co-housing. Promosso dall'Università di Torino e dal Ministero delle Politiche Giovanili, un’esperienza che le permette di entrare in un contatto intenso con la grande diversità sociale, culturale, etnica, religiosa della città. “Vivo a Roma per poterla lasciare e Non vivo a Torino per poterci tornare”.Daniela racconta come il lavoro l’abbia portata a lasciare Torino ma come e perché questo legame sia ancora vivo e costante, grazie al magma che ribolle sotto una città, in cui le sorprese non finiscono mai.

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    32 分
  • Ep. 68: Piergiorgio Odifreddi - La Matematica come Linguaggio Universale
    2025/03/24

    Piergiorgio Odifreddi, matematico di professione e divulgatore per vocazione, offre uno sguardo affascinante sul mondo della matematica e sul suo impatto sulla cultura universale. Nel corso dell'intervista, Odifreddi rivela un percorso personale e intellettuale che intreccia rigorose ricerche matematiche con un'insaziabile curiosità che abbraccia letteratura, arte, musica e persino politica.Iniziando con un racconto sulla sua carriera accademica, Odifreddi descrive i suoi oltre 40 anni di insegnamento e le esperienze internazionali che l'hanno portato dagli Stati Uniti all'Unione Sovietica, dalla Cina all'Australia. "Da quando siamo andati in pensione ho cominciato a lavorare", ricorda citando sua moglie, evidenziando come la sua attività di divulgazione e partecipazione culturale sia fiorita dopo il ritiro dall'insegnamento formale.Un punto di svolta nella sua carriera divulgativa è stato il Festival della Matematica a Roma (2007-2009), voluto dall'allora sindaco Walter Veltroni. Nonostante i dubbi iniziali – "Ma chi vuole che venga a vedere un festival di matematica?" – l'evento si rivelò un successo straordinario, attirando 60.000 partecipanti e ospitando personalità del calibro di John Nash, protagonista del film "A Beautiful Mind", e altri illustri matematici come Alain Connes.Odifreddi affronta poi il tema degli stereotipi sui matematici, spesso considerati persone borderline o eccentriche. Racconta di figure emblematiche come John Nash, che ha combattuto con la schizofrenia, o Andrew Wiles, che ha dedicato nove anni della sua vita alla risoluzione del teorema di Fermat. "È molto difficile sapere se i matematici sono come sono e poi fanno il matematico o se invece fare matematica poi ti fa diventare come i matematici", riflette con ironia, ammettendo la sua stessa tendenza all'introversione: "Per me la vita ideale sarebbe quella di starmene sul divano a leggere, a fare i fatti miei, senza nemmeno uscire di casa."La conversazione si sposta poi sulla storia della matematica torinese, con riferimenti a figure come Giuseppe Peano, il cui lavoro influenzò profondamente Bertrand Russell e, attraverso una catena di eventi intellettuali, portò alle basi teoriche dell'informatica moderna. "L'invenzione [del computer] risale a Turing che si basa su Gödel che si basa su Russell che si basa su Peano, questo è partito tutto qui a Torino", spiega con orgoglio.Particolarmente illuminante è la riflessione di Odifreddi sulla matematica come linguaggio universale che permea tutti gli aspetti della cultura, ben oltre i confini delle scienze esatte. "La matematica sta dovunque, nella letteratura, nella musica, nella pittura, eccetera. La gente non lo sa, persino nella politica", afferma con convinzione. Cita l'esempio di Tolstoj che nelle ultime 200 pagine di "Guerra e Pace" introduce il concetto matematico dell'integrale per descrivere la storia come somma dei contributi infinitesimi di tutte le persone coinvolte negli eventi.Odifreddi sottolinea come la separazione tra cultura scientifica e umanistica sia un fenomeno relativamente recente e, in certa misura, artificiale. "La cultura è una sola ovviamente e fino praticamente all'ottocento, quindi fino a tutto il settecento, le persone non è che fossero il matematico, l'avvocato... Leibniz ad esempio era estremamente poliedrico." Evidenzia con una punta di provocazione come gli umanisti siano oggi "uomini di mezza cultura", poiché mentre gli scienziati spesso si interessano di letteratura e arte, il contrario avviene più raramente.Conclude la sua riflessione descrivendo la matematica non solo come un insieme di nozioni, ma come un metodo e un linguaggio universale – "un grande linguaggio e soprattutto è un metodo, il metodo di usare la ragione, la logica per parlare" – che insegna a strutturare il pensiero attraverso ipotesi chiare e ragionamenti rigorosi.

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    54 分
  • Ep. 67: Dalia Oggero - Trent'anni di scouting e editing letterario all'Einaudi
    2025/03/17

    Da oltre trent'anni Dalia Oggero varca la soglia della storica sede Einaudi in via Biancamano a Torino, un indirizzo che lei stessa definisce "quasi mitico", meta di turisti curiosi di scorgere il luogo dove sono nati alcuni dei più importanti libri della letteratura italiana. Iniziata come lettrice agli sgoccioli dell'università, Oggero descrive questo ruolo come "un mestiere infame, sottopagato ma anche bellissimo", che consisteva nel leggere manoscritti e restituire all'editore un'idea complessiva delle opere. Colpita per la qualità del suo lavoro, la casa editrice le ha presto offerto un posto nella narrativa italiana, settore di cui si occupa da tre decenni."In questi 30 anni è un po' cambiato tutto nel mondo e anche all'Einaudi", racconta Oggero, che attualmente ha la responsabilità di una collana dedicata agli esordienti chiamata "Unici", nata nel 2022 e già arrivata al decimo titolo. Un progetto ambizioso, considerando che l'Einaudi non dedicava una collana specifica agli esordienti dagli anni '50, quando esistevano "I gettoni" di Elio Vittorini, collana che tra il 1951 e il 1958 pubblicò circa sessanta titoli lanciando autori del calibro di Mario Rigoni Stern, Beppe Fenoglio e Lalla Romano.Il suo lavoro all'Einaudi si divide principalmente tra scouting ed editing: "Il grosso del mio lavoro è cercare romanzi e quindi leggo tantissimo, passo le mie giornate a leggere, i miei occhi si stanno devastando", confessa con una punta di ironia. "E poi lavoro sui testi, faccio editing per avviare un testo alla pubblicazione".La missione dell'Einaudi, racconta, è sempre stata quella di cercare un equilibrio: "Di fatto quello che si cerca di fare all'Einaudi è sempre una specie di miracolo, di equilibrismo, trovare dei libri che in qualche modo si innestino nella tradizione della casa editrice, quindi letterari, alti, belli, anche nuovi, insoliti, che colpiscono per la voce, per l'immaginario, per la qualità della storia, per la pasta della scrittura e al tempo stesso libri per cui il conto economico stia in piedi".Negli anni, il mercato editoriale ha subito profonde trasformazioni. Oggero osserva come ci sia stata un'epoca, all'inizio degli anni Duemila, in cui tutte le case editrici hanno iniziato a cercare avidamente nuovi autori: "Un po' tutte le case editrici hanno incominciato a cercare autori nuovi e proprio a cercare di farli funzionare". Un esempio di successo inatteso è stato Roberto Saviano con "Gomorra", che inizialmente ebbe una tiratura di meno di 5.000 copie senza che nessuno potesse prevedere il fenomeno che sarebbe diventato.Oggi, spiega Oggero, "le scommesse intorno agli esordienti sono forse più ponderate, meno febbrili". La collana "Unici" cerca opere che siano davvero uniche, "che non abbiano molti fratelli, o per ragioni stilistiche o tematiche, perché magari raccontano un'esperienza molto particolare, o anche strutturali, perché si inventano un'idea, una struttura romanzesca inedita e particolare".Il rapporto che si crea con gli autori nel corso degli anni è uno degli aspetti più gratificanti del suo lavoro. "Il rapporto che si crea con uno scrittore che si segue negli anni è veramente molto profondo", afferma. "Quando si seguono tutti i libri di un autore si crea un rapporto molto forte che confina sicuramente nell'amicizia, nell'amicizia intellettuale ma poi nell'amicizia tout court".Il processo di editing, soprattutto con gli esordienti, è spesso vissuto dagli autori "con molto pathos e terrore", ma diventa un lavoro fruttuoso per entrambe le parti. "Tu hai scelto il loro libro, quindi l'hai amato, non è che vuoi rovinarlo, riscriverlo, modificarlo o fare un editing invadente, quello che vuoi è portarlo ad essere la migliore versione di se stesso", chiarisce Oggero.

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    17 分
  • Ep. 66: Giulia Muscatelli - Anatomia di una narratrice inquieta
    2025/03/04

    Giulia Muscatelli, autrice e narratrice di storie, si definisce attraverso la sua passione per il racconto in tutte le sue forme. Dal giornalismo alla narrativa, dalla saggistica all'heritage museale, Muscatelli ha fatto del racconto non solo la sua professione ma anche il suo modo di essere. "Di lavoro racconto storie, anche di vita, nella vita racconto storie sempre," confessa all'inizio della nostra conversazione.Cresciuta a Torino in una famiglia con radici meridionali, Muscatelli ha sviluppato un rapporto complesso con la sua città natale. Nonostante definisca Torino "bellissima da fuori", ammette di non sentirsi completamente a suo agio nella città, forse influenzata dalle sue origini familiari del sud. Il suo legame più forte con Torino viene dal padre, ex giornalista sportivo, professionista collaboratore del Torino Calcio, che le ha trasmesso una connessione speciale con la "Torino sfigata" della squadra granata, una città che "si diverte un sacco tra gli sfigati."Il suo percorso verso la scrittura è stato quasi inevitabile, cresciuta in una famiglia dove la parola scritta era centrale: il padre giornalista, i genitori che si sono conosciuti all'Olivetti, dove lui vendeva macchine da scrivere. Dopo un tentativo di allontanarsi da questo "destino" iscrivendosi a giurisprudenza, ha trovato la sua strada attraverso la Scuola Holden. "Non credo che bisogna fare per forza una scuola per imparare a scrivere," riflette, "però nel mio caso è stata fondamentale... ho capito che al mondo esisteva gente come me, che quello che piaceva a me poteva essere un lavoro."La sua relazione con la scrittura è complessa e viscerale. Muscatelli descrive il suo processo creativo con onestà disarmante: "Io fondamentalmente non ho voglia di mettermi a scrivere mai." Paragona l'inizio della scrittura all'inizio di una corsa - difficile partire, ma una volta iniziato, il processo diventa gratificante. Il suo rituale pre-scrittura include la pulizia del suo studio, un tratto che attribuisce scherzosamente al suo essere Vergine ascendente Vergine.Parlando del panorama culturale torinese, Muscatelli offre una prospettiva sia critica che affettuosa. Riconosce l'esistenza di "circoletti" culturali nella città, ammettendo di farne parte lei stessa. "È complesso perché di quelle persone faccio parte anch'io," riflette, evidenziando la tensione tra la critica al sistema e il beneficiarne. Ricorda con nostalgia la Torino della sua adolescenza, in particolare la scena dei Murazzi. Con particolare nostalgia ricorda i suoi giovedì al Krakatoa, dove i Subsonica animavano le serate: "La mia adolescenza io l'ho fatta ai giovedì dei Murazzi, dove c'erano Samu e Boosta dei Subsonica che mettevano musica." Con un sorriso confessa: "Mamma, questa è l'occasione per dirtelo, il giovedì non dormivo a casa di Beba, ma andavamo tutte le sere al Krakatoa e il venerdì dormivo a scuola."Quell'esperienza ha profondamente segnato la sua formazione: "Passare l'adolescenza in un posto come Murazzi, dove tu balli in sottoscala e incontri il cantante, incontri lo scrittore... ti dà una visione ampia del mondo in una città che tutto sommato è piccola." Oggi, guardando i Murazzi, prova un senso di malinconia: "A vederli oggi mi piange il cuore perché capisco le difficoltà per cui non possono essere più quello che erano prima." Questa Torino musicale e culturale degli anni '90 e primi 2000 ha lasciato un'impronta indelebile: "Sono stati grandi anni e io su questa Torino la ringrazio."Il suo ultimo libro, "Io d'amore non so scrivere", in uscita con add editore, rappresenta una svolta inaspettata nel suo percorso. È una ricerca condotta con ragazzi tra i 13 e i 20 anni sul modo in cui parlano e scrivono di amore e sesso oggi. "Mai avrei creduto che avrei scritto di amore, di adolescenti," confessa, "però la scrittura è fighissima anche per questo perché ti mette davanti a delle cose inaspettate."

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    27 分